Marco Pantani, quindici anni senza certezze: i tormenti di un campione

Marco Pantani
Marco Pantani, a quindici anni dalla sua morte ci sono più dubbi che certezze

Quindici anni fa Marco Pantani ci lasciava: luci e ombre di un campione amato, di cui ancora si dibatte. Quel suicidio che non torna a molti e l’inchiesta che, grazie a nuove testimonianze, potrebbe riaprirsi.

Il quattordici febbraio, solitamente, si festeggia l’amore. Vissuto, sognato, spezzato. Un sentimento dalle mille sfaccettature che ha coinvolto, coinvolge e coinvolgerà sempre Marco Pantani che nello stesso giorno di quindici anni fa è stato trovato morto. Da allora, l’affetto dei tifosi, occasionali e non, di ciclismo, si è trasformato prima in sgomento, poi in scetticismo ed infine ha prevalso l’amarezza.

Non verso il personaggio, l’uomo, il campione Pantani che ancora oggi non riesce ad essere scalfito nelle sue luci ed ombre, bensì nei confronti delle pieghe (non su pista, stavolta) che la vicenda legata alla sua morte avrebbe preso nel tempo. Una storia dolorosa e intricata che continua a viaggiare a velocità diverse. Proprio come sapeva e poteva fare lui in bicicletta. Prima la voglia di risposte, poi lo smarrimento, successivamente l’oblio presunto. Siamo ancora, per così dire, al punto di partenza, in un’eterna rotonda che torna in auge dopo quasi due decadi grazie all’auspicio della riapertura del caso.

È cronaca, è sport, è vita. La stessa che a Marco è stata strappata prematuramente, la madre ancora oggi, continua a dire: “Me l’hanno ammazzato”, con lo strazio di una donna stanca e snervata, ma mai doma. Una volta di più ritroviamo, in quegli occhi tristi e desiderosi di giustizia, il volto di Marco che da qualcuno deve aver preso. Chi, invece, persiste a prendere abbagli è l’opinione pubblica che per l’ennesima volta si ritrova a doversi barcamenare fra atti (mancati, presunti e dovuti) e testimonianze: come quella di una ragazza, Elena, che conosceva Marco e ha paura della possibile riapertura delle indagini. Perché ci sono ancora troppi punti interrogativi, un puzzle che stenta a trovare la giusta composizione.

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A rimettere insieme i pezzi ci prova, di nuovo, uno studente universitario che lavorava al Residence “Le Rose”, dove nel 2004 Pantani fu trovato senza vita: “Non è vero che il giorno prima dormiva lì (al residence, ndr). Era qui con altre persone, a parlare sul divano. E ho registrato il suo nome nella scheda dell’albergo”. Tutto questo emerge in un recente servizio de “Le Iene”, dove si è cercato di fare ordine nel caos mediatico e giudiziario di quindici anni: ufficialmente un’overdose di cocaina e altre sostanze stupefacenti avrebbe atterrito, definitivamente, Pantani. Ufficiosamente trapela l’insinuazione – per alcuni sempre più una certezza – del suicidio architettato. Una questione di dettagli, che sembrerebbero non combaciare. Come ammette l’avvocato De Rensis, legale che ha seguito la vicenda sin dagli inizi: “La realtà ufficiale si discosta completamente dal racconto di molti testimoni, che nemmeno si conoscono tra loro. Porteremo il filmato alla Procura di Rimini e chiederemo nuovamente la riapertura dell’indagine”.

È quello che potrebbe accadere, ma forse il logoramento di questa bagarre giudiziaria e sociale sta proprio nel fatto che, dopo più di cinquemila giorni, aleggia sulle coscienze di tutti i coinvolti – innocenti e presunti tali – il condizionale. Il dubbio, l’incertezza. L’equivoco. Allora se sarà necessario riaprire un’inchiesta per risolvere i punti in sospeso, stavolta vorrà dire riprovare davvero a fare quell’ultima salita, che dovrà portare necessariamente al traguardo. La linea bianca coinciderà, magari, con la serenità di chiunque e la certezza che Marco Pantani potrà davvero riposare in pace. Senza sospesi o patemi d’animo, appartenenti a quel mondo complesso e subdolo che ha risucchiato un’icona troppo presto.

Ciao, Marco.

Di Andrea Desideri