WES, MOU, ONU: MORATTI dice tutto

LA GAZZETTA DELLO SPORT – “Niente mobbing, ma Sneijder non so se rimarrà all’Inter. Josè, l’affetto c’è…”. “Mi fido di Strama, non sono preoccupato. Mercato? Balotelli non tornerà, va valorizzato chi c’è. Non volevo evocare Calciopoli, ma non va dimenticata”…

(getty images)

RASSEGNA STAMPA – (A. Elefante) – Moratti ieri era un Presidente e un padre felice. L’«altra» Inter, quella per cui tifa da quindici anni, e sempre in famiglia, stava per vincere ben più di una partita: a New York le hanno dato una specie di scudetto ad honorem, che lo ha piacevolmente costretto ad un pomeriggio americano di parole, commosse, e strette di mano, gratificanti. Dentro il Palazzo di Vetro, che il numero uno nerazzurro ha raggiunto a piedi con noi, dalla sede della Missione Italiana Permanente all’Onu: chiacchierando di un sogno filantropico diventato realtà. E della ‘sua’ Inter.

Che sensazione si prova ad entrare all’Onu da invitati speciali?
“Direi orgoglio: per l’organismo che ci ha invitato e perché non si è trattato solo di una cosa formale, ma del riconoscimento di una partnership con un’istituzione che racchiude i sentimenti di tutto il mondo, riconosciuta dai Paesi dove lavoriamo con Inter Campus“.

L’avrebbe mai detto, quindici anni fa?
“Non pensavo a tutto questo, ma non ponevo neanche limiti ad una cosa bella: un buon modo per uscire da certe tensioni del calcio – che pure hanno il loro fascino – per mettere a disposizione, del calcio, solo la parte più bella a chi ne ha bisogno”.

Orgoglio moltiplicato dal fatto che Presidentessa di Inter Campus sia sua figlia Carlotta?
“Perché no, certo. Soprattutto perché ho scoperto di avere in Carlotta una grande manager, che non è stata messa lì per il fatto di essere mia figlia, ma perché ha dimostrato di saper portare avanti questo compito con capacità pari alla sua naturale umiltà”.

Un’Inter vincente come ha saputo esserlo la sua?
“Sono due piani diversi: Inter Campus lavora per la felicità dei bambini che diventa poi la nostra; la squadra lavora per far bene il suo compito, e questo a volte viene fatto e altre volte un po’ meno”.

Lunedì sera a Parma un po’ meno?
“E’ un momento così ma non sono allarmato: ho fiducia nei giocatori e in Stramaccioni“.

L’ha sentito preoccupato, dopo quella sconfitta?
“Tranquillo no, ma lui è così, vive le cose con la giusta tensione: quella di fare bene. Mi fido di lui perché ha il senso della realtà, sa vivere in mezzo ai giocatori e non si ferma al dispiacere, se qualcosa non va. E’ già lì che studia la soluzione per correre ai ripari e non entrare nel vortice di una continuità negativa: è il primo a sapere che nulla va dato per scontato”.

Lei che idea si è fatto di questo momento negativo?
“Credo sia dipeso dalla stanchezza per un calendario molto fitto, dagli infortuni – e non è un alibi – e anche dal fatto che quando tutto va bene subentra una sicurezza che può finire per inguaiarti: non bisogna mai crederci troppo, perché se poi arrivano le sconfitte è più difficile accettarle, non si capisce bene perché si perde. E la cosa grave di lunedì è non solo che abbiamo perso, ma che si è capito che al massimo avremmo pareggiato”.

Stanchezza e infortuni: dunque necessità di rinforzi sul mercato?
“Questa squadra è stata più rinforzata rispetto all’anno scorso, con l’obiettivo di far bene: non significa scudetto – ma facendo bene può succedere – ma avere una forte crescita, nel rispetto di una congiuntura economica da non trascurare. Non va sbagliata l’impostazione programmatica: la squadra è e in linea di massima sarà questa, perché se puntando su grandi campioni non si risolvono certi problemi, si rischia solo di avere un problema in più”.

Ma Stramaccioni apprezzerebbe molto un suo regalo, tipo Paulinho…
Stramaccioni è un tecnico che sa adeguarsi a far bene con quello che ha, che non è poco. Paulinho è bravo, ma il nostro obiettivo deve essere valorizzare e avere fiducia in chi ancora non si è espresso come potrebbe: tipo Alvarez, Coutinho, Pereira, lo stesso Guarin. Mi chiedono anche di Balotelli, ma non credo che tornerà”.

E se Sneijder dovesse andarsene, cambierebbero le cose?
“Anzitutto una cosa: parlare di ricatto o di mobbing dell’Inter è voler vedere per forza male le cose. Sneijder non gioca anzitutto perché l’allenatore non lo vede integrato al massimo, soprattutto dal punto di vista psicologico, con la mentalità della squadra. Tutto il resto è questione di libertà reciproca: per noi è stato naturale cercare di trovare un modo per non essere costretti a venderlo, lui ha il diritto di non accettare la nostra proposta. E se la situazione rimarrà tale, la soluzione sarà inevitabile cercarla sul mercato”.

Ma Sneijder aveva anche il diritto di non ascoltare quella proposta, tanto più se fatta direttamente dal Presidente?
“Non siamo neanche arrivati a questo e comunque nei miei confronti Sneijder ha sempre avuto rispetto e simpatia, quelli che io ho per lui, anche per tutto quello che ha contribuito a farci vincere”.

Dopo Inter-Cagliari lei rilasciò dichiarazioni molto pesanti, che evocarono il fantasma di Calciopoli.
Calciopoli è talmente presente nell’immagine del nostro calcio degli ultimi dieci anni che non serve rievocarlo: però non va neanche dimenticato, perché altrimenti non impariamo niente. Però Calciopoli era una cosa talmente complicata, “organizzata”: no, quel giorno mi riferivo a distrazioni, cattiva forma, forse anche antipatia – ci sta di essere antipatici, e lo dico senza vittimismo – e sfortuna: il problema è che l’Inter era stata un po’ troppo sfortunata. Non lunedì a Parma, dove abbiamo perso e l’arbitro è stato bravissimo”.

Preoccupato per il rinvio dell’accordo con gli investitori cinesi?
“Si sono incartati per le loro regole, ma essendo grandi società con manager intelligenti è doveroso avere ancora speranza e pazienza”.

Ma le viene da credere che ormai possano non bastare neanche quelle?
“Dopo aver firmato dei contratti pensavo di no, ora che è passato così tanto tempo non posso far altro che iniziare a pensarci”.

E questo Mourinho che continua a pensare all’Inter con nostalgia?
“E’ un affetto reciproco e sono convinto che il suo sia autentico. In fondo fu bello anche che fosse un’esperienza, diciamo così, fulminante e quando se ne andò mi disse: “Ma lei perché continua a fare il Presidente? Nella mia carriera non ho mai avuto tanta difficoltà nei confronti delle istituzioni”. Aveva addosso un’infinita fatica di vincere ed era impossibile non capirlo: l’ho sentita così tante volte anche io”.